La Kirchnerizzazione del governo argentino

Cristina de Kirchner è tornata a lavoro e la sua prima decisione è stata quella di sostituire alcuni membri dello staff governativo. Un’azione che ha immediatamente chiarito quale sarebbe stato il nuovo corso della politica argentina. In realtà, parlare di nuovo corso è improprio, poiché la matrice ideologica dell’esecutivo non è cambiata, se non nella sua intensità. Difatti, la “presidenta”, dimessasi dall’ospedale in cui era stata ricoverata per un intervento al cervello (le era stato diagnosticato un coagulo di sangue), ha operato una kirchnerizzazione dell’apparto politico ed economico nazionale. Ha così nominato nuovi funzionari e ministri più vicini alla tradizione politica della Casa Rosada, lasciando presumere per il prossimo futuro un approccio più interventista del governo nelle dinamiche del paese. Quali sono le motivazioni alla base di questa scelta? Per individuarle è opportuno valutare il contesto economico e politico in cui si è ritrovata la Kirchner al termine della degenza in ospedale.

 L’operazione chirurgica è andata bene e il periodo di convalescenza è stato breve. Più difficile è stato affrontare il ritorno alla vita politica, a causa del grave trauma causatole dalle elezioni legislative di medio termine del 27 ottobre scorso. In quest’occasione si votava per rinnovare la metà dei seggi della Camera dei Deputati e un terzo di quelli del Senato. La coalizione al potere Frente para la Victoria (FPV) è stata sconfitta in 12 distretti elettorali su 24, inclusi i 5 più popolati dell’Argentina. Sia Unión Cívica Radical  (UCR, formazione di centro storicamente avversa al peronismo) che il Frente Renovador  (FR, peronismo dissidente, di centrodestra) hanno allargato il proprio bacino di consensi. Certo, nonostante la debacle, il kirchenirismo ha conservato la maggioranza assoluta in Parlamento: tuttavia, con quelle consultazioni Cristina ha perso anche la possibilità di modificare la costituzione e garantirsi un terzo mandato (difatti, la revisione della carta necessita nel caso specifico della maggioranza dei due terzi).

 L’indebolimento del kirchnerismo a livello politico-istituzionale è stato in parte generato dall’inettitudine mostrata sul piano finanziario, sul piano amministrativo e su quello sociale. Le misure adottate dall’esecutivo per contrastare la crisi si sono dimostrate inefficaci: l’inflazione galoppante (opportunamente tenuta nascosta dall’establishment) e il debito estero erodono il potere d’acquisto dei consumatori, che si trovano a fare i conti con un peso oscillante e svalutato. Un problema strutturale, che si accompagna alla corruzione dell’apparato burocratico e all’alto tasso di criminalità.

 In ultimo, è bene segnalare una questione che sta molto a cuore alla presidenta: a chi lasciare la sua eredità politica. Mancano due anni alla fine del suo mandato e Cristina è impegnata a individuare un candidato in grado di fronteggiare sfidanti competitivi. Più specificatamente, la minaccia principale alla sua egemonia in quest’ambito è incarnata dal peronismo dissidente del Frente Renovador, guidato da Sergio Massa. In passato membro dell’esecutivo kirchnerista, Massa aveva già dato prova delle sue potenzialità battendo alle primarie dello scorso agosto nella provincia di Buenos Aires (dove risiede quasi il 40% dell’elettorato) l’uomo sostenuto dalla Casa Rosada, Martin Insaurralde.  In seguito, aveva rafforzato la sua presenza in Parlamento rubando elettori al Frente para la Victoria. Il sindaco della città di Tigre punta ora a vincere le presidenziali del 2015, ponendo fine al lungo regno dei Kirchner.

Cristina ha circa due anni di tempo per modificare uno status politico ed economico nazionale che non gioca a suo vantaggio. Così, considerata la maggioranza assoluta che il FPV continua a detenere al Congresso, il rimpasto di alcuni membri dell’esecutivo (il capo di gabinetto, il ministro dell’Economia e quello dell’Agricoltura) e la nomina di un nuovo presidente della Banca Centrale possono essere interpretati come il tentativo della Kirchner di lavorare con una classe dirigente più ideologicamente vicina alle proprie posizioni: un’élite pronta a seguire il proprio leader indiscriminatamente, per convinzione e non solo per convenienza. Esemplificativo a riguardo è il nuovo ministro dell’Economia Axel Kicillof, che aveva supervisionato la nazionalizzazione di Aerolinas Argentinas (compagnia aerea di bandiera) e della società petrolifera argentina YPF (in precedenza, sotto il parziale controllo della multinazionale spagnola Repsol), molto temuto dagli investitori privati. Così come il nuovo capo di gabinetto, Jorge Capitanich, fedelissimo della presidenta, di cui condivide le visioni più radicali. Proprio Capitanich potrebbe essere l’erede di Cristina, ragionano alcuni osservatori, dato che Daniel Scioli, governatore della provincia di  Buenos Aires e presidente del Partido Justicilista (formazione peronista che integra la coalizione Frente para la Victoria), oltre ad apparire conservatore, è accusato di opportunismo: sosterrebbe la Kirchner solo perché necessita del consenso del suo elettorato per vincere le prossime elezioni presidenziali.

 Nulla fa supporre che in questi due anni la situazione cambierà in Argentina. Soprattutto se si pensa che, con le sue nuove nomine, più che intraprendere un’inversione di rotta l’esecutivo ha scelto di perseverare nelle proprie scelte.

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Impiccato si risveglia. La condanna è da ripetere

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Beffa la morte, anche se solo per il momento Alireza M., un iraniano 37enne, impiccato per possesso di droga e risvegliatosi il giorno dopo nella stanza dell’obitorio dove era stato trasportato in seguito all’esecuzione. Secondo i giudici, la pena comminata dovrà essere nuovamente eseguita.

Come riferisce la CNN, la sentenza è stata attuata il 7 ottobre nella prigione di Bojnurd, nella regione nordorientale del paese. Alireza era stato riconosciuto colpevole da un tribunale iraniano della detenzione di un kilogrammo di crystal meth e per questo condannato a morte: difatti, secondo una legge approvata tre anni fa, nella Repubblica Islamica questa è la fine che tocca a chiunque possieda più di 30 grammi di qualsiasi tipo di stupefacente. Una volta constatato il decesso, il corpo è stato trasportato all’obitorio dove l’ultimo saluto dei familiari era previsto per il giorno successivo. Proprio la mattina dopo però il personale della camera mortuaria si è reso conto di una stranezza: l’uomo continuava a respirare. Il personale medico è stato subito allertato per risolvere il mistero: in effetti Alireza era sopravvissuto al soffocamento provocato da un’impiccagione durata 12 minuti.

Le manifestazioni di gioia dei parenti del condannato sono state però interrotte dai commenti della corte, per la quale l’uomo è stato riconosciuto colpevole e per questo la sentenza dovrà essere ripetuta. Come ha spiegato il giudice Mohammad Erfan: «la sentenza è stata approvata e la sentenza è la morte, quindi porteremo a termine nuovamente l’ordine di esecuzione».

Immediate sono giunte le critiche di Amnesty International, organizzazione internazionale votata alla difesa e promozione dei diritti umani nel mondo, che ha invocato una sospensione della sentenza e una moratoria su tutte le pene capitali nel paese. In un comunicato di Philip Luther, direttore della sezione Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty, riportato dallaBBC si legge: «l’orribile prospettiva di quest’uomo che dovrà fronteggiare per la seconda volta l’impiccagione…sottolinea semplicemente la crudeltà e la disumanità della pena di morte».

Il consumo di droga in Iran è significativamente aumentato a partire dal 2008. Nel paese la pena di morte è comminata per diversi reati, quali omicidio, abusi sessuali, rapina a mano armata, spionaggio, sodomia, adulterio, apostasia. Tuttavia, come descritto dal World Report 2013 realizzato da Human Rights Watch, negli ultimi anni il maggior numero di esecuzioni capitali è avvenuto per reati legati al traffico e consumo di droga: decisioni adottate da tribunali rivoluzionari durante processi considerati come «viziati» dall’organizzazione internazionale. Una realtà che caratterizza l’intera regione del Medio Oriente e del Nord Africa. Difatti, nonostante la difficoltà nel reperire dati e informazioni complete nei paesi dell’area a causa di conflitti e instabilità istituzionale, il rapporto stilato da Amnesty International nel 2012 fornisce un quadro dettagliato della situazione. Secondo gli autori, gli stati che registrano una maggiore incidenza nell’utilizzo della pena di morte sono Iran, Iraq, Arabia Saudita e Yemen: come nel 2011, anche nel 2012 questi quattro paesi si configurano come i responsabili del 99% delle esecuzioni portate a termine nell’intera area. Ad ogni modo, si legge nel report, sebbene il fronte dei governi che fa uso di questo tipo di punizione si sia allargato rispetto al 2011, il numero totale di sentenze eseguite si è ridotto, passando dalle circa 750 del 2011 alle 505 del 2012.

 Fonte Mediaxpress

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Mezzo milione i morti della guerra in Iraq

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Sono quasi 500mila i morti legati al conflitto iracheno. Lo rivela uno studio pubblicato martedì negli Stati Uniti e redatto da un equipe internazionale di ricercatori americani, canadesi e iracheni. La stima di 461mila vittime si basa su una serie di sondaggi casuali attraverso cui sono state intervistate 2mila famiglie situate in diverse regioni del paese. Il periodo di tempo considerato è compreso fra l’invasione statunitense del marzo 2003 e il giugno del 2011, sei mesi prima del ritiro delle truppe occidentali. L’indagine prende in esame le diverse cause di morte, quelle direttamente e indirettamente legate alla guerra. Il numero di morti risulta così di gran lunga superiore a quello calcolato dalla Iraq Body Count, organizzazione con base nel Regno Unito, pari a 112mila, secondo quando riferisce la BBC.

Realizzato in collaborazione con il ministero della Salute di Baghdad, il rapporto si sofferma non solo sui decessi provocati dall’invasione, dalle insurrezioni e dalle lotte armate, ma anche a quelli connessi a un contesto instabile, generato dal collasso istituzionale e dal degrado sociale, economico e sanitario. Difatti, come spiega uno degli autori Amy Hagopian, circa un terzo delle vittime è stato determinato da fattori accidentali prodotti dalla violenza delle ostilità, tra cui: acque contaminate, ospedali sovraffollati, forniture di medicinali compromesse, attacchi cardiaci e malattie cardiovascolari. «In una situazione di guerra, le persone non possono lasciare casa per cercare assistenza medica. E quando lo fanno, giungono in complessi sanitari sovraffollato di feriti gravi» ha commentato la Hagopian dell’Università di Washington alla NBC news.

Il metodo utilizzato si basa su 2mila interviste casuali fatte a nuclei familiari iracheni e condotte in cento raggruppamenti geografici attraverso le 18 provincie che compongono il territorio statale. A ciascuna è stato domandato se fosse mancato qualcuno in famiglia a partire dal 2003. L’analisi dei dati raccolti ha indicato un tasso di morte nel tempo di guerra pari a 4,55 per mille persone: un valore che supera di più del 50% il numero di decessi registrato prima dell’offensiva militare statunitense. Moltiplicando i tassi individuati per la dimensione della popolazione nazionale e considerando la quota di persone emigrate, lo studio arriva a stimare un numero di morti pari a 461mila. Di questi, il 60% è attribuibile alle violenze e il rimanente a cause indirettamente legate al conflitto: in particolare, il tracollo delle infrastrutture sanitarie, di trasporto e di comunicazione.

Autofinanziandosi con le risorse delle proprie sedi accademiche, il team di ricercatori provenienti dall’Università di Washington, dalla Johns Hopkins University, dalla Simon Fraser University e dalla Mustansiriya University ha lavorato su basi volontarie. Lo studio infatti è stato rivolto alle classi dirigenti, con l’ardito obiettivo di mostrare loro un quadro delle atrocità della guerra il più completo e realistico possibile: con l’auspicio che i governi futuri ci pensino più di una volta prima di iniziare un’invasione.

 Fonte Mediaxpress

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Norvegese il più grande fondo sovrano

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Mentre l’Europa mediterranea patisce gli stenti causati dalla crisi, al nord del Baltico cresce uno dei fondi sovrani più grandi al mondo. Si tratta del Fondo Pensione nazionale norvegese che ha raggiunto un ammontare pari a circa 750 miliardi di dollari: come riferisce la BBC, secondo alcuni analisti è destinato a rinsaldare il suo primato entro il 2020, quando dovrebbe toccare la soglia di un trilione di dollari.

Conosciuto con l’acronimo di GPFG (Government Pension Fund Global), deve la sua fortuna non già ai risparmi versati dai cittadini del paese ma dagli enormi introiti prodotti dal settore degli idrocarburi. Lo stato ha finanziato l’esplorazione dei giacimenti di petrolio e gas naturale presenti nel Mar del Nord fin dal lontano 1969, anno in cui furono scoperti. Il denaro investito è aumentato progressivamente, consentendo un sistematico lavoro di trivellazione, raffinazione ed esportazione del greggio depositato al largo delle coste norvegesi. Il volume dei ricavi si è allargato di pari passo: oggi il fondo di Oslo si arricchisce ogni settimana di un miliardo di dollari derivanti dai profitti e dal gettito fiscale dell’industria degli idrocarburi. Come riporta l’International Business Times, citando i dati raccolti dall’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo, il GPFG ha più che raddoppiato il suo valore a partire dal dicembre del 2007: insieme all’altro grande fondo del paese, il GPFN (Government Pension Fund Norway), possiede l’1% delle azioni mondiali e in Europa rappresenta il principale detentore di titoli, intestatario di circa il 2% di tutte le società quotate. Secondo la lista stilata dal Sovereign Wealth Fund Institute, seguono il fondo norvegese quello dell’Arabia Saudita (675,9 miliardi di dollari) e quello degli Emirati Arabi Uniti (627 miliardi di dollari).

Risorsa fondamentale della nazione, il fondo pensione è da tempo al centro di un dibattito sulla possibilità di renderlo più sicuro e redditizio. In particolare, secondo alcuni economisti sarebbe opportuno frammentarlo in piccoli fondi.Intervistato dalla BBC, il professore Bruno Gerard della Norway’s Business School di Oslo ha infatti spiegato che «sarà difficile continuare a gestire questo immenso flusso di denaro all’interno di una sola organizzazione»; nonostante sia efficientemente amministrato, secondo Gerard «un piccolo errore su un grande fondo può avere enormi conseguenze. Sarebbe molto meno dannoso se avessimo differenti piccoli fondi». Inoltre, molti analisti accostano all’idea della frammentazione quella della diversificazione. Attualmente gran parte delle risorse del fondo sono investite nel campo energetico. Certo, quest’ultimo rappresenta un settore economico in forte espansione per il paese: come riferisce l’Economist, la Norvegia costituisce l’ottavo più grande esportatore al mondo di oro nero, un prodotto che da solo è responsabile del 30% delle rendite nazionali. Tuttavia, nel lungo tempo le riserve si esauriranno e quindi diviene lungimirante affacciarsi su altri mercati, come quello delle infrastrutture e dei beni immobili.

 Fonte Mediaxpress

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Le divisioni della Coalizione anti-Assad

radical islamic group

Della natura settaria del conflitto ne avevano già discusso gli analisti delle Nazioni Unite. Una consapevolezza condivisa dalla comunità internazionale e rafforzata dalla molteplicità etnica e religiosa che, in misura diversa, caratterizza un po’ tutte le realtà statali mediorientali. Questa frammentazione “naturale” è stata poi aggravata da interessi e principi ideologici difficilmente conciliabili, che si sono irrobustiti nel corso delle ostilità, alimentando profonde lacerazioni all’interno degli schieramenti. Così che quelle iniziali divergenze, che hanno minato fin dal principio l’unità delle forze anti-Assad, intensificandosi ne hanno provocato la prevedibile spaccatura. Martedì scorso infatti, in un comunicato video diffuso online,undici gruppi di ribelli islamisti hanno ripudiato l’autorità della Coalizione Nazionale Siriana (CNS) che raccoglie i diversi partiti di opposizione al regime di Damasco. ‹‹I gruppi formati all’estero e che non hanno fatto ritorno nel paese (Siria, ndr) non ci rappresentano›› hanno fatto sapere nella nota, esortando ‹‹tutte le forze militari e civili ad unirsi all’interno di una comune cornice islamica basata sulla Sharia, che dovrebbe costituire la sola fonte legislativa››.

Scontri fra le varie formazioni degli insorti si sono registrati in diverse occasioni durante questi due anni e mezzo di conflitto: e tuttavia, è proprio nelle ultime due settimane che le tensioni fra esse si sono ulteriormente acuite. Come riporta Al Jazeera, gli uomini dello “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante” (SIIL) hanno dichiarato di voler muovere guerra ad altre fazioni ribelli nella città di al-Bab, nel governatorato di Aleppo. In precedenza, il SIIL aveva combattuto contro la brigata“Tempesta del Nord” nella località di Azaz; sabato scorso invece, aveva affrontato i miliziani di “Jabhat al-Nusra” nella provincia orientale di Hasaka.

Secondo gli esperti, le formazioni sunnite radicali stanno acquisendo maggiore forza all’interno della galassia che raggruppa la multiforme opposizione siriana. Al punto da arrivare a disconoscere il CNS, sostenuto dalla potenze occidentali e riconosciuto dalle monarchie del Golfo come il rappresentante legittimo del popolo siriano, e a formare un’organizzazione antagonista speculare. Come si legge nel testo: ‹‹la Coalizione Nazionale e il suo governo (di transizione, ndr) diretto da Ahmad Tumeh non rappresenta (le forze di opposizione, ndr) e non sarà riconosciuto››.

Vero è che a firmare il comunicato figurano non solo le bande integraliste ma anche settori dell’esercito libero siriano come le voci religiose più moderate: il fronte Al-Nusra, Ahrar al-Sham, Liwa al-Tawhid, Liwa al-Islam, Suqur al-Sham, Harakat Fajr al-Sham al-Islamiya, Harakat al-Nour al-Islamiya, Kataib Nour al-Din al-Zinki, Liwa al-Ansar, Tajammu Fastaqim Kama Ummirat – Aleppo e Diciannovesima Divisione. Tuttavia, in base a quanto riferito dalla BBC, la dichiarazione da un lato sembra sancire la crescente preponderanza all’interno della coalizione dei reparti religiosi fondamentalisti; dall’altro, pare manifestare la graduale tendenza all’islamizzazione degli schieramenti in lotta. Con il risultato che l’equilibrio delle forze anti-Assad rischia di rompersi presto a favore delle componenti jihadiste della guerra civile.

Un’ipotesi questa che Stati Uniti e Russia hanno sempre temuto. Difatti, nonostante interessi nazionali differenti abbiano condotto la Casa Bianca e il Cremlino ad offrire assistenza rispettivamente ai ribelli e a Bashar al-Assad, le due potenze hanno sempre condiviso la preoccupazione che le formazioni fondamentaliste riuscissero a rafforzare la propria presenza nel paese. Molti osservatori americani hanno insistito sul fatto che i gruppi islamisti radicali si caratterizzano per un’organizzazione più efficientemente strutturata ed equipaggiamenti tecnologicamente più avanzati. Come riferisce Voice of America, la scorsa primavera il presidente americano Obama ha avvertito gli stati del Golfo a non dotare i ribelli siriani di missili anti-aerei, allarmato che potessero finire in mani integraliste. Allo stesso tempo, il presidente russo Putin ha recentemente espresso, in un articolo apparso sul New York Times, l’allarmante conseguenza di un trionfo dei gruppi jihadisti in Siria: l’instaurazione di un regime basato su una lettura integralista della Sharia potrebbe innescare simili aspirazioni nei territori vicini, rendendo la minaccia del terrorismo sempre più pericolosa e destabilizzante. La partecipazione al conflitto siriano di combattenti ceceni e di miliziani provenienti dal Caucaso è stata indicata come dimostrazione della plausibilità di questo scenario.

 Fonte Mediaxpress

 

 

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Medicina, soft power cubano

cuban doctorsCirca 4mila medici lasceranno presto i caraibi: direzione Brasile. In seguito ad un accordo negoziato da Brasilia con l’Organizzazione della Salute Panamericana, dottori e infermieri cubani saranno impiegati presto nelle zone dello stato prive di copertura sanitaria nazionale: si fa riferimento in particolare alle regioni rurali e disagiate, soprattutto nel cuore dell’Amazzonia. Un’intesa che ha suscitato le proteste del personale locale che, dopo aver lamentato dei bassi salari di cui si accontenterebbero i cubani per esercitare la professione, hanno insinuato dubbi sui loro studi e sulle loro effettive competenze. Una questione politica, hanno osservato alcuni analisti, per entrambi i paesi: da un lato per la Rousseff che, nel tentativo di rispondere più alacremente alle esigenze popolari in vista delle consultazioni generali del 2014, cerca di rafforzare ed estendere il proprio consenso elettorale; dall’altro, per il regime di Castro, che fa leva sugli elementi del soft power nazionale per rinvigorire i propri legami con le potenze regionali.

EMERGENZA MEDICI. In base a quanto riportato dall’Associated Press, il Palácio do Planalto ha incontrato serie difficoltà nell’implementare il piano denominato “Più Medici”, teso a garantire un’assistenza sanitaria efficiente su tutto il territorio statale, sollecitata dalle recenti proteste di piazza che hanno invocato, tra l’altro, maggiori e migliori servizi pubblici. L’esecutivo si è impegnato ad arruolare medici brasiliani da destinare alle zone più disagiate, dove la carenza di infrastrutture e personale specializzato impedisce agli strati più poveri della società di fruire delle cure necessarie in caso di bisogno.

Sono circa 15mila i posti di lavoro che il governo cerca di coprire in almeno 700 municipalità che non dispongono neppure di un medico. Ma non è riuscito nell’impresa dal momento che, secondo fonti ufficiali, i laureati preferiscono una carriera altamente redditizia nelle cliniche private delle grandi città metropolitane piuttosto che seguire la missione dettata da una genuina vocazione. Da qui l’idea di importare medici dall’estero, principalmente dalla Spagna, dal Portogallo, dall’Argentina e da Cuba.

LE PROTESTE. Secondo il programma internazionale, i dottori stranieri riceveranno uno stipendio mensile di circa 4mila dollari (10mila real): tuttavia, per il personale proveniente dall’Avana, la paga verrà devoluta al governo di Castro che poi deciderà quanto attribuire ai singoli operatori. Così, secondo alcuni commentatori, lavoreranno per meno della metà dei loro colleghi stranieri in condizioni fuori dall’ordinario e con le difficoltà linguistiche del caso. Difatti, nonostante il corso di tre settimane di lingua portoghese e di studio del sistema sanitario brasiliano a cui non potranno esimersi, immediatamente hanno fioccato le accuse di invalidità dei titoli universitari o di scarse conoscenze idiomatiche da parte delle associazioni di categoria. Quanto basta per far scattare le proteste dei medici e degli studenti brasiliani che, dopo aver definito “schiavi” e “incompetenti” i loro colleghi caraibici, hanno indirizzato i loro strali all’élite dirigenziale nazionale, sostenendo che dovrebbe utilizzare il denaro pubblico per dotare anche delle aree più interne e remote del paese nuovi equipaggiamenti e attrezzature avanzate oltreché infrastrutture ospedaliere e medicinali: gli elementi basilari senza cui non si può pretendere di operare in sicurezza.

SOFT POWER CUBANO. La perla delle Antille celebra la preparazione dei propri medici e studenti, dovuta ad avanzate strutture ospedaliere e di ricerca irrorate da cospicui contributi statali. Una risorsa fondamentale per il regime, in termini di politica interna ma soprattutto di politica estera. Difatti, fin dagli anni sessanta l’Avana ha esportato personale medico-sanitario nelle latitudini più povere del terzo mondo. L’area privilegiata fu ovviamente l’America latina, dove Fidel non ha mai abbandonato la speranza di accrescere la propria influenza, allacciare proficui legami economico-diplomatici con le potenze regionali e infine rifornirsi delle risorse di cui necessita con l’intento di vanificare, almeno parzialmente, l’embargo commerciale statunitense.

In termini di influenza, pensiamo all’immagine che Cuba si è guadagnata nell’intera area caraibica, attraverso l’invio di dottori, infermieri e personale tecnico specializzato in zone di crisi così come alla fornitura di borse di studio a livello universitario. Emblematiche sono rimaste le parole dell’ex presidente della Repubblica di Haiti, René Préval, che una volta esclamò: ‹‹in Haiti si dice che dopo Dio ci sono i medici cubani››. Ma ancora più importante è stato l’acquisto del petrolio venezuelano la cui contropartita sono stati i servizi e l’expertise medico-scientifico fornito dall’isola. Secondo gli ultimi dati raccolti, sono circa 30mila i professionisti del comparto sanitario cubano presenti solo nella Repubblica Bolivariana, la quale corrisponde con 92mila barili di greggio al giorno per un valore stimato di 3,2 miliardi di dollari l’anno.

Un voce di bilancio, quella dell’istruzione, della ricerca e della medicina, che porta nelle casse dello stato circa 6 miliardi di dollari all’anno: un valore ancora più apprezzabile se si considera il surplus simbolico-politico legato all’immagine di una Cuba paladina degli afflitti.

 Fonte Mediaxpress

 

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