Nepal, l’ombra di Mao preoccupa Nuova Delhi

L’integrazione degli ex ribelli maoisti nell’esercito regolare nepalese intimorisce le autorità politiche indiane, allarmate dalla crescente influenza di Pechino nel subcontinente

di Marco Luigi Cimminella

Dopo sette mesi di stallo politico, il parlamento nepalese ha nominato Jhalanath Khanal come nuovo primo ministro. Leader del Partito comunista marxista-leninista, il capo del governo ha ottenuto l’appoggio delle forze maoiste. Il nuovo esecutivo dovrà affrontare ora due importanti questioni, strettamente legate all’accordo di pace siglato nel 2006: da un lato, la stesura di una nuova costituzione, prodotto del processo di transizione democratica in atto nel paese. Dall’altro, l’integrazione dei combattenti ribelli maoisti nell’esercito regolare o, eventualmente, il loro ritorno alla vita civile.

Le modalità attraverso cui queste problematiche nazionali verranno risolte definiranno anche l’attitudine internazionale assunta dalla nuova élite governativa nei confronti dei suoi storici partner regionali: Cina ed India. I due giganti asiatici sono difatti fortemente interessati al continuo divenire politico nepalese: in gioco, vi sono interessi che spaziano dalla sicurezza all’influenza geopolitica, fino all’economia.

In particolare, sul versante della sicurezza, a preoccupare l’élite politica di Nuova Delhi è il radicamento delle forze maoiste sul territorio nazionale nepalese e nelle strutture di governo. Difatti, da tempo le autorità indiane fronteggiano la minaccia della guerriglia naxalita, soprattutto nelle zone del Chhattisgarh e dell’Andhra Pradesh. Il partito comunista maoista indiano (Cpi-M), braccio politico dei militanti naxaliti, aspira a creare un corridoio rivoluzionario compatto che dal Nepal, attraversando il Bihar, raggiunga l’Andhra Pradesh, per poi discendere nella regione meridionale del paese.

Dal punto di vista economico invece, guerriglieri nepalesi, guidati dalle forze maoiste, hanno più volte impedito l’implementazione di progetti, riguardanti la produzione e la vendita di energia idroelettrica, finanziati da investitori stranieri. Tra questi, figurano soprattutto piani d’investimento indiani, come l’accordo fra la PTC India Ltd, uno dei principali fornitori di energia nel subcontinente, e un grande stabilimento di energia idroelettrica nepalese, naufragato a causa dei protratti disordini sul territorio.

Ma la diffusione capillare delle forze maoiste in Nepal è gravida soprattutto di importanti risvolti geopolitici. Recentemente la Cina ha irrobustito la sua presenza nello Stato himalayano attraverso l’installazione di un suo sistema di telecomunicazioni, che non mancherà di arrecare indubbi benefici politici alla dirigenza di Pechino. In particolare, lamentano i servizi di sicurezza indiani, la Cina potrà ottenere i dati delle conversazioni telefoniche, in entrata ed uscita, degli ufficiali, dei funzionari, degli esponenti del governo, e potrà così pianificare, in anticipo, le contromisure da adottare nei confronti dei propri rivali. In passato inoltre, riferiscono le forze di intelligence di Nuova Delhi, le autorità cinesi hanno incoraggiato la creazione di network maoisti in Nepal ed India al fine di provocare agitazioni e rivolte.

Da qui sono evidenti le perplessità espresse del governo indiano sulla questione dell’integrazione degli ex combattenti maoisti, ideologicamente indottrinati. La loro presenza nell’esercito regolare nepalese o la probabile investitura politica dei quadri militari ribelli sono forieri di un prevedibile indebolimento delle relazioni internazionali indo-nepalesi, a tutto vantaggio del gigante cinese che, attraverso un Nepal più vicino alle sue posizioni, potrebbe ulteriormente irrobustire la sua influenza nel subcontinente.


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Anche il Pakistan a rischio

Martoriato dall’inflazione e dal deficit pubblico, il Pakistan potrebbe essere presto attraversato da sollevamenti popolari simili a quelli in Maghreb

di Marco Luigi Cimminella

I venti di protesta, che attraversano in queste ultime settimane il mondo arabo mediterraneo, potrebbero presto sferzare, con inarrestabile furia, anche il subcontinente indiano. In particolare, le inondazioni che hanno dilaniato il Pakistan nei mesi scorsi, unitamente alla già precaria situazione economica del Paese, sono forieri di prevedibili sollevamenti da parte del popolo, esasperato dall’inettitudine che il governo ha dimostrato e sta dimostrando nel fronteggiare la crisi.

Questo è il parere di Tadateru Konoe, presidente della Federazione Internazionale della Croce Rossa, secondo cui le piogge torrenziali e la conseguente distruzione dei raccolti, soprattutto nella regione del Punjab e del Sindh, hanno trascinato il paese in un vortice inflazionistico. In particolare, si è registrato un forte aumento dei prezzi dei prodotti agricoli, che ha reso ancora più fragili e drammatiche le prospettive di vita della popolazione.

Naturalmente, le determinanti ambientali da sole non bastano a spiegare la precaria situazione economico-sociale caratterizzante il Pakistan. Difatti, argomentano molti analisti, le élite politiche di Islamabad non solo non sono riuscite ad arginare la crisi, ma i loro tentativi si sono dimostrati addirittura deleteri. La coalizione governativa, guidata dal Partito del popolo pakistano, limitandosi a inefficaci iniezioni di denaro, proveniente dalle casse della Banca centrale, ha alimentato il già preoccupante deficit nazionale. Sono circa 2 miliardi di rupie al giorno (23.4 milioni di dollari) i finanziamenti che le autorità politiche pachistane hanno ricevuto dalla Banca centrale, contribuendo così al peggioramento degli squilibri nel bilancio statale.

Secondo Abdul Hafeez Shaikh, ministro delle Finanze, il deficit potrebbe presto raggiungere l’8 per cento del debito pubblico. Difatti, argomento alcuni studiosi locali, la sconsiderata immissione di denaro, senza una coerente ed adeguata politica fiscale ed economica, avrà solo l’effetto di alimentare la spirale inflazionistica. Come rilevato dal Federal Bureau of Statistics, i prezzi delle derrate alimentari sono aumentati del 20.4 per cento nel dicembre scorso.  Secondo uno studio condotto dall’Istituto pakistano per lo sviluppo economico, l’inflazione incalzante, il deficit di bilancio, l’elevata disoccupazione e la stagnazione economica non lasciano adito a molti dubbi su come la situazione si evolverà nel corso del corrente anno finanziario e in quelli successivi.

Lo spettro delle agitazioni popolari volteggia sempre più minaccioso sul destino politico della leadership pachistana. Soprattutto ora che molti donatori internazionali, tra cui la Banca Mondiale, la Banca di sviluppo asiatico e la Banca di sviluppo islamico hanno interrotto le generose erogazioni di denaro a favore di Islamabad, a causa dell’inadempienza mostrata dal governo nell’implementare le riforme strutturali imposte dal Fondo Monetario Internazionale.

Politiche repressive, alti tassi di disoccupazione, inflazione e corruzione hanno innescato incontenibili moti di protesta che hanno condotto alla defenestrazione dell’ex presidente tunisino Ben Ali. L’inettitudine del governo pakistano, alla stregua di quello tunisino nel fronteggiare l’analoga situazione che caratterizza i due paesi, potrebbe condurre presto allo stesso risultato.

03/02/2011

fonte PeaceReporter

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Human Rights Watch: Italia razzista e xenofoba

Rosarno, Rom e respingimenti: le denunce all’Italia contenute nel report 2011 dell’organizzazione umanitaria con sede a New York

di Marco Luigi Cimminella

Siamo razzisti e xenofobi. Questo traspare dal rapporto annuale di Human Rights Watch, “World Report 2011“, in cui viene analizzata la questione del rispetto e della salvaguardia dei diritti umani nel mondo.

Con parole poco lusinghiere e tanto veritiere, l’organizzazione newyorkese descrive la difficile situazione italiana, dove la discriminazione sessuale, etnica, religiosa aleggia, spesso con indifferenza, nella vita politica e sociale del Paese. In particolare, vengono riportate le vicende di Rosarno, quando lo scontro violento fra migranti africani e forze dell’ordine produsse diversi feriti da entrambe le parti. Il rapporto focalizza l’attenzione anche sulle discriminazioni operate nei confronti dei rom e sinti, stipati in campi autorizzati o abusivi, oggetto di “sfratti forzati” e contributi economici affinchè abbandonino il paese. Centrale anche la questione dei respingimenti. La Corte europea dei diritti dell’uomo e il Consiglio d’Europa diverse volte si sono pronunciati contro il trasferimento di sospettati di terrorismo (come Mohammed Mannai in Tunisia), spesso a rischio di maltrattamenti e violenze nei propri Paesi d’origine. Fortemente criticato il comportamento dell’Italia che, nell’Aprile del 2010, in violazione del divieto di respingimento, ha rispedito in Libia un carico di persone, senza curarsi della proprio stato psico-fisico e senza offrire loro la possibilità di chiedere asilo. Dure le condanne anche in riferimento agli episodi del G8 di Genova. Dopo gli scontri, sebbene fossero state comminate condanne per 25 agenti, il ministero dell’Interno ha “comunicato di non volerli sospendere”.

Nell’esaminare la situazione a livello mondiale, Human Rights Watch esecra l’approccio politico adottato dai governi dei Paesi democratici. I diritti umani sono largamente oggetto di sistematiche violazioni da parte di regimi autoritari che, facendo leva sugli interessi economici e finanziari occidentali, approfittano della passiva opposizione dei Paesi cosiddetti ‘democratici’. In particolare, viene critica la diplomazia europea, il cui “ritualistico supporto al dialogo e alla cooperazione con i governi repressivi è troppo spesso una scusa per non agire”. Emblematico è il caso della Cina. Aggiunge l’organizzazione statunitense che “nonostante diversi Paesi continuino a perseguire un dialogo sui diritti umani con il governo cinese, poche di queste opache discussioni hanno prodotto significativi risultati nel 2010”. Sono diverse le emergenze denunciate dal report.

In Iran, la libertà di associazione e di stampa si sta gradualmente spegnendo, mentre il fondamentalismo religioso alimenta discriminazioni religiose e sessuali. Dopo le contestate consultazioni elettorali del 2009, più di seimila persone sono state arrestate. Giornalisti, attivisti, politici, avvocati sono attualmente detenuti e oggetto di torture al fine di estorcere confessioni. In alcuni casi, nella pena di morte risiede la tragica capitolazione dell’opposizione e della dissidenza.

In Egitto, nonostante la Costituzione assicuri “pari diritti, indipendentemente dalla fede religiosa”, i cristiani copti, che rappresentano il 10 per cento della popolazione, vengono discriminatamente esclusi dalla vita politica ed economica del Paese. Spesso sono anche oggetto di attentati, come è avvenuto nella notte di Capodanno ad Alessandria d’Egitto, dove sono morte 23 persone.

Mentre in Russia gli attivisti continuano ad essere preda di attacchi e vessazioni, in Cina giornalisti e blogger, che non si uniformano alla politica governativa, vengono sistematicamente reclusi. Preoccupante è anche la situazione degli uiguri, nella provincia dello Xinjiang, sottoposti alle misure repressive del regime di Pechino.

Infine, mentre nei campi profughi haitiani il tasso di violenze sessuali perpetrate contro le donne è drammaticamente aumentato, in Arabia Saudita la popolazione femminile è sottomessa all’universo maschile, in ambito educativo, lavorativo e matrimoniale. In particolare, il governo non ha ancora fissato un limite di età per contrarre matrimonio, incentivando il fenomeno delle spose bambine.

La salvaguardia dei diritti umani sembra non rivestire un’importanza centrale nelle agende programmatiche delle grandi potenze mondiali che, nel perseguimento dei propri interessi particolaristici, si abbandonano facilmente ed egoisticamente a politiche di appeasement umanitario.

24/01/2011

fonte PeaceReporter

Sri Lanka: minoranza Tamil discriminata

Secondo un report realizzato dal Minority Rights Group, le minoranze tamil e musulmane in Sri Lanka sono oggetto di discriminazioni e violenze da parte del governo singalese che le vuole marginalizzare

di Marco Luigi Cimminella

Al termine di una guerra che ha dilaniato lo Sri Lanka per 25 lunghi anni, i lasciti della sua virulenza ancora si abbattono con insistenza su una parte della popolazione dell’isola. Le vittime sono le minoranze musulmane e tamil, che costituiscono la maggioranza nella parte settentrionale ed orientale della regione.

Nel report “No war, no peace: the denial of minority rights and justice in Sri Lanka“, pubblicato dall’organizzazione “Minority Rights Group“, sita a Londra, si legge che tali comunità sono oggetto di una marginalizzazione politica ed economica da parte del governo centrale. In particolare, a destare i timori di una singalizzazione del paese, sono i tentativi del presidente Mahinda Rajapaksa di imporre il culto buddista sull’intero territorio e l’implementazione di diversi progetti di sviluppo economico che, non solo minacciano gli interessi, ma soffocano anche i diritti delle minoranze religiose e culturali srilankesi. Secondo gli analisti, che hanno intervistato i rappresentanti dei partiti politici, dei gruppi religiosi e della società civile, molteplici sarebbero le misure in cui si esplica la volontà della coalizione governativa di egemonizzare culturalmente la società civile e soffocare le istanze delle minoranze.

In primo luogo, vi è la questione della redistribuzione della terra. In seguito alla guerra contro le Tigri, le minoranze tamil, in prevalenza nella regione settentrionale, furono internate dalle truppe dell’esercito regolare in campi provvisori, come quello di Menik Farm. Al termine del conflitto, dopo la proclamazione della vittoria, la dirigenza di Colombo concesse agli sfollati il permesso di far ritorno alle proprie abitazioni. Le loro aspettative furono però brutalmente ridimensionate quando scoprirono che le loro proprietà erano state espropriate. Diverse le modalità adottate dall’amministrazione centrale. Alcune zone venivano proclamate ad altro rischio mentre altre venivano utilizzate per costituire basi militari. Spesso, il governo incoraggiava ed assisteva i cittadini singalesi a trasferirsi nelle aree del paese in cui si concentrava la maggioranza tamil e musulmana, assegnando le loro terre nel tentativo di mutarne i pattern demografici ed etnici. Ma la politica nazionalistica invasiva singalese si estrinseca anche nella proliferazione di templi buddisti, sponsorizzati dalle élite al potere, nelle aree tradizionalmente abitate dalle minoranze e attraverso politiche di “supremazia linguistica”, consistenti nelle discriminazioni attuate contro le persone di etnia tamil. Difatti, la gran parte degli ufficiali e dei funzionari parlano solo il singalese. La classe politica non ha destinato sufficienti finanziamenti alla promozione dello studio della lingua tamil da parte degli organi e della autorità amministrative locali. Il disinteresse nell’allocare risorse a favore delle necessità socio-economiche dei gruppi minoritari costituisce un’esaustiva manifestazione dell’ostile inclinazione governativa nei loro confronti. Anche i progetti di sviluppo economico devono essere interpretati attraverso questa chiave di lettura. Ponti, strade, porti, hotel per i turisti vengono costruiti sulle terre confiscate ai tamil, attraverso l’impiego della manodopera singalese trasferita appositamente da altre zone del paese.

Costretti a vivere in aree militarizzate e sottoposti alle violenze e agli abusi dell’esercito e del governo, i membri delle comunità minoritarie sono privati gradualmente delle essenziali libertà di espressione ed associazione, nonché di rappresentanza politica. La dirigenza di Colombo ha smentito tali accuse, considerando il report come il prodotto di attivisti e ricercatori di parte, alimentati finanziaramente e politicamente dai membri della diaspora tamil nel mondo.

Nonostante il governo singalese abbia annunciato la sua vittoria sulle Tigri, i rancori del passato, alimentati dai timori di rivolte e ribellioni, sono lungi dall’essere dimenticati. Nel tentativo di irrobustire la propria leadership contro nemici mai del tutto sconfitti, le élite al potere stanno progressivamente eliminando culture, religioni e vite innocenti.

24/01/2011

fonte PeaceReporter

La falsa transizione democratica birmana

All’indomani delle elezioni, criticate dalla comunità internazionale, la giunta al potere ha annunciato la denazionalizzazione delle imprese statali

di Marco Luigi Cimminella

Il governo del Myanmar ha deciso di privatizzare il 90 per cento delle imprese nazionali, di proprietà dello stato, entro la fine del 2011. La testata “Weekly Eleven” riporta le parole del ministro dell’Industria birmano, Khin Maung Kyaw, secondo cui la misura è manifestazione degli sforzi del paese di intraprendere la strada della democrazia.

Ma la liberalizzazione economica, propagandata dal regime di Rangoon, sembra essere piuttosto fittizia, così come si sono dimostrate le consultazioni elettorali dello scorso novembre, dove il partito dell’Unione della Solidarietà e Sviluppo, sostenuto dalla giunta militare al potere, ha ottenuto l’80 per cento dei voti. Finora infatti, la proprietà di molte aziende statali è stata ceduta ad affaristi e imprenditori vicini al governo della giunta, in cambio di sostegno politico e finanziamento. Come descritto da “Democratic Voice of Burma“, un’organizzazione giornalistica indipendente, nel gennaio 2010 ben 250 stabilimenti di idrocarburi erano stati si privatizzati ma ” il possesso dei titoli azionari era stato semplicemente trasferito agli amici del governo”, spiega l’analista economico Aung Thu Nyein. Ad esempio, Khin Shwe, uno dei più potenti magnati birmani, proprietario della Zaykabar Company e sostenitore del regime, dopo aver conquistato un seggio in Parlamento è stato selezionato per dirigere la Śāsana Noggaha Association, ex Union Solidarity and Development Association (USDA), detentore di diverse proprietà in tutto il paese. Quest’organizzazione era stata istituita dalla élite militare per estorcere, attraverso raduni di massa, sollecitazioni di voti porta a porta, coercizione e minacce, il sostegno popolare alle politiche da lei adottate. Dotata di un suo contingente paramilitare, il Swan-Arr-Shin, l’USDA strozzava qualsiasi tentativo di opposizione. In più, alcune fonti locali riferiscono che il colosso commerciale birmano Max Myanmar, diretto dal filogovernativo Zaw Zaw, colpito dalle sanzioni finanziare statunitensi, potrà beneficiare della partecipazione al progetto del porto di Tavoy nel distretto meridionale di Tennasserim. Recentemente, Zaw Zaw aveva siglato un importante accordo per la costruzione del porto di Dawei, attraverso erogazioni di capitale thailandesi per 8.6 miliardi di dollari. Ancora, Tay Za, favorito del generale Than Shew, già gestisce miniere di rubino e giada nello stato di Kachin. L’obiettivo della giunta, secondo l’economista Sean Turnell, ordinario alla Macquarie University, in Australia, è quello di conservare la proprietà delle maggiori fonti lucrative del paese, indipendentemente dall’evoluzione della situazione politica nazionale.

Ricca di risorse naturali e minerarie, quali legno, tungsteno, gas, oro, giada, il paese ha destato l’appetito di diverse potenze, in primo luogo la Cina che, in questi ultimi tempi, si è dimostrato l’acquirente più generoso. Nonostante magnati e funzionari politici siano stati colpiti da sanzioni internazionali, Pechino, adottando la solita strategia della non ingerenza negli affari interni, ha copiosamente investito nella costruzione di strade, strutture per l’estrazione e la lavorazione di minerali e idrocarburi nonché porti sulla baia birmana del Bengala. Ma l’avidità dei generali potrebbe, in ultima analisi, rivelarsi controproducente. I dissapori e la competizione fra militari, nell’assegnare a parenti e amici le imprese statali “denazionalizzate”, avrà l’effetto di indebolire interiormente la giunta, la cui posizione a livello internazionale non è certo delle migliori. Difatti, per evidenti motivazioni economiche e politiche, la dirigenza cinese non si è unita al coro di condanna dei paesi occidentali, rigorosamente critici nei riguardi delle ultime elezioni e dell’atteggiamento repressivo adottato nei confronti delle opposizioni. Ma il fallimento del governo nel sedare gli scontri etnici scoppiati al confine con Pechino, il narcotraffico birmano e la fuga di migliaia di rifugiati nella provincia cinese di Yunnan hanno destato profonde perplessità sulle effetive capacità dei militari di garantire la stabilità e l’ordine interno. Inoltre, alcuni analisti osservano che, nell’attuazione di questa politica di finta privatizzazione, è improbabile che Ragoon accetti la proprietà diretta cinese delle attività finanziare birmane “liberalizzate”, con il conseguente quanto ovvio disappunto degli investitori del Celeste Impero.

Le promesse di pluralismo politico e di liberalizzazione economica sono state propagandate da Ragoon come i giusti strumenti per intraprendere il processo di transizione democratica. L’appropriazione delle imprese statali da parte di personalità filogovernative e le elezioni di novembre hanno dimostrato come queste promesse siano rimaste sulla carta, rivelandosi così strumenti fittizi di una transizione fittizia.

17/01/2011

Fonte PeaceReporter

L’aiuto condizionato della Cina

L’intervento di Pechino a sostegno dell’economia europea in crisi è funzionale agli obiettivi perseguiti dal gigante asiatico contro la politica statunitense

di Marco Luigi Cimminella

Qualche giorno fa, il vice premier cinese, Li Keqiang, aveva annunciato la disponibilità del gigante asiatico ad acquistare il debito sovrano spagnolo. Approvando le misure di austerità adottate dal governo socialista di Madrid, Pechino si è dichiarata speranzosa nei riguardi della ripresa economica e finanziaria del paese. Ed è così che mentre si riduce la quota di bond spagnoli detenuta dai paesi europei, aumenta quella in possesso di economie emergenti, in primo luogo proprio la Cina.

Nave senza nocchiere nella tempesta finanziaria internazionale, la fragile economia europea sembra sempre più dipendente dagli aiuti condizionati e condizionanti di istituzioni internazionali e grandi potenze mondiali che, senza alcuna velleità altruista, foraggiano un’economia in crisi, attendendendo pazientemente il proprio tornaconto.

Da qualche tempo, la Cina ha ufficialmente cercato di prendere le redini della situazione, dichiarando in più di un’occasione la sua volontà di aiutare il vecchio continente, attraverso l’acquisizione dei titoli di stato dei paesi in difficoltà. Pechino ha già offerto il suo sostegno al Portogallo, e solo qualche giorno fa, ha ribadito la sua intenzione di continuare ad aquistare il debito pubblico spagnolo.  I malati d’Europa accolgono con entusiasmo il lenitivo cinese, giustificando spesso la manovra con la necessità di diversificare la base degli investitori. Ma l’aiuto del Dragone non è certo disinteressato. Le giustificazioni economiche e politiche che sottendono l’intervento cinese non lasciano adito a dubbi sulle reali aspirazioni dell’ex Impero di mezzo. In primo luogo, il vecchio continente rappresenta la principale destinazione delle esportazioni del Dragone. La ripresa economica europea è quindi necessaria al continuo afflusso dei manufatti e prodotti sfornati a basso costo dal gigante asiatico. Come ha sottolineato Wang Qishan, vice premier agli affari economici, finanziari ed energetici, riferendosi all’Europa: “È importante opporsi a ogni forma di protezionismo con misure concrete”. L’investimento nei titoli del debito pubblico di paesi europei in difficoltà ha quindi un costo: l’abbassamento delle barriere tariffarie imposte contro le esportazioni del Celeste Impero.

Ma la strategia di Pechino è squisitamente politico-economica. La bilancia commerciale internazionale cinese è infatti in continuo avanzo. L’adozione di una politica del controllo dei cambi impedisce la libera fluttuazione dello yuan che, a causa del forte surplus nel conto corrente internazionale, dovrebbe rivalutarsi seguendo il suo corso naturale. Per converso, mantenendo artificialmente basso il valore del renminbi, il Dragone salvaguarda la competitività delle proprie merci, a svantaggio delle altre grandi economie, in primo luogo quella statunitense. Da tempo, infatti, Washington, caratterizzata da un cospicuo deficit nei suoi conti con l’estero, invano esorta Pechino a garantire una libera fluttuazione monetaria che comporterebbe un apprezzamento dello yuan, rendendo così i beni esteri relativamente più convenienti rispetto a quelli interni. Come conseguenza, si delineerebbe in Cina un aumento della domanda di beni importati e un ripristino dell’equlibrio sulla bilancia dei pagamenti internazionale. Pechino ha però smentito la validità delle argomentazioni statunitensi. Jiang Yaoping, vice ministro del Commercio, ha infatti affermato che “fin dal 2005 abbiamo modificato il tasso di cambio, ma il surplus commerciale registrato nei confronti degli Stati Uniti non è variato”. Alcune motivazioni, secondo l’alto funzionario, devono essere individuate nel fatto che molte compagnie multinazionali importano semilavorati e li trasformano in prodotti finiti in Cina, prima di esportarli negli Usa.

Washington è così impegnata nel deprezzare la propria valuta in modo da favorire le proprie esportazioni e ridurre i deficit di bilancio. Nel novembre scorso infatti, Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, ha annunciato l’acquisto dei titoli di stato statunitense. L’immissione di liquidità che ne deriva è manifestazione della politica espansiva adottata dalle autorità monetarie per promuovere la svalutazione del dollaro e incorraggiare le vendite all’estero. Dal canto loro, la Cina e le altre economie emrgenti non tollerano questo deprezzamento della valuta statunitense, da un lato perchè titolari di ingenti riserve valutarie straniere in dollari, e dall’altro perchè ne conseguirebbe un apprezzamento delle proprie valute e un peggioramento delle proprie esportazioni. Con la riforma della governance del FMI è aumentato il peso del voto dei paesi emergenti, che non mancheranno quindi di far sentire la propria voce. Ma in questa guerra delle valute, Pechino vuole l’Europa dalla sua parte. Anche sotto questa luce si spiega l’intenso sforzo del Dragone nel sostenere l’economia del vecchio continente, di fatto in crisi. La svalutazione del dollaro, infatti, implica un parallelo apprezzamento dell’euro, senza che vi sia una effettiva base economica a sostenerlo. In più, la manovra adottata da Washington ha spinto i paesi medio orientali, che vendono petrolio nell’area euro e ne acquistano i beni finiti, ad aumentare il prezzo degli idrocarburi, per sostenere il proprio potere d’acquisto indebolito.

In questo afrore di tensione che impregna il panorama economico internazionale, attraverso politiche di deprezzamento giustificate in maniera diversa e poco originale, la svalutazione competitiva sembra sempre più divenire un imperativo consunto, ad uso e consumo di paesi ipocriti.

11/01/2010

fonte PeaceReporter