Iran, al riparo dal Web 2.0

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In questi ultimi giorni, Teheran ha rilanciato il piano di realizzare una nuova rete Internet all’interno del paese: un’intranet su scala nazionale, isolata dal mondo esterno e rigidamente controllata e regolamentata dalle pubbliche autorità. Secondo fonti governative, l’idea nasce dalla necessità di migliorare l’accesso dei cittadini al web, velocizzandolo e proteggendolo da ingegnosi cyber-attacchi. Prendendo spunto dalle continue critiche relative all’obsolescenza dell’infrastrutture informatiche della Repubblica Islamica, la classe dirigente del paese ha così giustificato l’opportuna creazione di un sistema di connessione domestico, in grado magari di garantire una maggiore rapidità di navigazione ma sottoposto più facilmente agli stringenti vincoli dettati dalla censura iraniana.

Il progetto non è certo recente: l’iniziativa era già stata avanzata nel luglio del 2011 quando Reza Taqipour Anvari, ministro delle Comunicazioni, aveva annunciato l’inizio, nell’agosto di quello stesso anno, della prima fase dell’ “internet nazionale” o “internet pulito”: si prometteva una velocità di connessione più elevata (8 Mbps che sarebbero passati presto a 20) e maggiore difesa dalle aggressioni degli hacker. Tuttavia, osservatori e attivisti del web avevano contestato il piano, sottolineando le implicazioni insite a una sua effettiva implementazione e disvelando le reali intenzioni del governo che lo aveva ripetutamente proposto.

DIFFIDENZA E PAURA. Per comprendere la plausibilità dei sospetti di alcuni analisti è doveroso fare un preambolo, descrivendo in primo luogo l’aria di oppressione che si respira nella società civile iraniana. Come denunciato da Reporters without Borders, l’instancabile e sistematico lavoro delle alte gerarchie politiche e religiose ha generato un sistema di sorveglianza radicato: affinando i propri strumenti e riassestando la propria organizzazione, tale sistema ha finito con il dotarsi di una struttura centralizzata, indipendente dal punto di vista finanziario e autorizzato a promulgare leggi. Come riporta la giornalista Farnaz Fassihi dalle pagine del Wall Street Journal, si tratta del Consiglio Supremo del Cyber-spazio, istituzione creata nel marzo del 2012 e composta da membri dell’intelligence, dell’apparato di sicurezza e da esponenti del corpo dei Guardiani della Rivoluzione. Il suo compito consiste nel monitorare le informazioni, filtrare i contenuti, bloccare qualsiasi piattaforma, blog, sito ritenuto immorale e illegale.

Secondariamente, un altro elemento degno di nota è stata la rapida diffusione dei social network e il ruolo che hanno giocato nella Primavera Araba. Dire che questi abbiano rappresentato la causa primaria dell’esplosione di quella serie di rivoluzioni che hanno attraversato il Medio Oriente e il Nord Africa nel 2011 è fuorviante. Tuttavia, non bisogna sottostimare il potente contributo che questi mezzi hanno offerto in quell’occasione, nella misura in cui hanno facilitato l’organizzazione e il coordinamento delle proteste. I video amatoriali postati su internet, i tweet ininterrotti che passavano da una città all’altra e, progressivamente, da uno stato all’altro, hanno creato una cornice di solidarietà e condivisione in cui popoli diversi si battevano contro un comune nemico, si incoraggiavano vicendevolmente, si sentivano meno soli. Hanno, in ultima analisi, decuplicato la forza e l’energie della mobilitazione.

Facebook, Twitter, Youtube sono gli strumenti attraverso cui si è animata e si anima la resistenza iraniana, attraverso cui si incanala e diffonde la sua contro-informazione, attraverso cui si resiste alla dura repressione governativa. Le autorità conservatrici sono da tempo consapevoli delle potenzialità insite nel web 2.0, percepito come una pericolosa minaccia al sistema di potere vigente. L’Iran infatti, a fronte di una popolazione di circa 75 milioni di persone, conta circa 45 milioni di cittadini utenti della rete: questi numeri lo rendono il primo paese per numero di internauti nella regione mediorientale.

In ultimo, un altro fattore da menzionare sono le imminenti elezioni presidenziali che saranno convocate il prossimo giugno: si teme infatti che blog e social network possano fomentare nuove manifestazioni e rivolte. Un timore fondato se si pensa a ciò che accadde alle consultazioni del 2009. In quell’occasione, la contestata vittoria dell’attuale presidente Mahmoud Ahmadinejad innescò una serie di agitazioni, che presero il nome di Rivoluzione Verde: non solo la repressione statale fu violenta, ma fu accompagnata dal rigoroso sforzo di impedire che la situazione fosse documentata dai giornalisti stranieri. Così, gli iraniani scesi in piazza iniziarono a scattare fotografie, girare video e a raccontare gli avvenimenti per mezzo dei loro telefonini, pubblicando il tutto su internet.

Prima classificata nel ranking stilato nel 2012 da Reporters without Borders e denominato “nemici di internet”, la Repubblica Islamica considera il web come una delle principali fonti di destabilizzazione dello status quo. Demonizzata come ancella di attività spionistiche, cospirazioni e sovversione, la rete è stata così soggetta a soffocanti restrizioni il cui coronamento, sostengono alcuni esperti, giunge proprio con il lancio di questo nuovo progetto. Qualora dovesse essere effettivamente ultimato e posto in esecuzione, lamentano molti utenti, la già limitata libertà del popolo iraniano potrebbe subire un’ulteriore strozzatura. Questa volta fatale.

Fonte MediaXPress

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