Indesit, accordo con i sindacati: evitati 1400 licenziamenti

Stabilimento della Indesit Company
Stabilimento della Indesit Company

Dopo sei mesi di trattative è stata raggiunta l’intesa fra azienda e sindacati. Un accordo che ha impedito il taglio di 1400 posti di lavoro attraverso un piano di riassetto della produzione in Italia della Indesit Company. Si attende ora l’approvazione del testo ad opera dei lavoratori delle fabbriche, chiamati ad esprimersi con un referendum.

Hanno accettato di sottoscrivere il patto solo Fim (Federazione Italiana Metalmeccanici), Uilm (Unione Italiana Lavoratori Metalmeccanici) e Ugl(Unione Generale del Lavoro): la Fiom (Federazione Impiegati Operai Metallurgici) infatti ha deciso di astenersi. Entusiasta l’amministratore delegato e presidente dell’azienda Marco Milani, che ha promesso circa83 milioni di euro in nuovi investimenti per il nostro paese nel triennio 2014-2016.

Il progetto di salvaguardia e razionalizzazione dell’assetto industriale prevede di ridisegnare gli impianti dei tre poli manifatturieri italiani di cui si compone il gruppo: in particolare, sarà operata una diversificazione delle loro missioni produttive. Fabriano si specializzerà nella fabbricazione di forni da incasso e di quelli di piccole dimensioni oltre che nei prodotti speciali per la cottura. Diversamente, Comunanza si occuperà dell’innovazione dei processi produttivi di lavabiancheria di alta gamma a carica frontale. Infine Caserta concentrerà le risorse nella realizzazione di frigoriferi da incasso ad alto contenuto tecnologico, appropriandosi delle commesse destinate finora alle succursali turche.

Il gruppo ha poi deciso di spostare le produzioni italiane di bassa gamma non più economicamente sostenibili: saranno riallocate all’estero, in paesi caratterizzati da costi lavorativi inferiori.

Soddisfatti i sindacati firmatari, che hanno contestato il rifiuto di Fiom di aderire all’intesa: una decisione che “proprio non comprendiamo, non ci sono ragioni di contenuto e sindacali per mancare il proprio consenso ad un accordo così importante”.

Durante le negoziazioni avvenute nei mesi precedenti, la Fiom ha espresso sempre profonde riserve sulle ipotesi di accordo. L’ultimo insuccesso è stato registrato il mese scorso. Per raggiungere un compromesso, l’azienda marchigiana ha promesso di riportare in Italia la produzione di forni e frigoriferi delocalizzata rispettivamente in Spagna e Turchia. Come contropartita ha chiesto ai lavoratori il sacrificio di accontentarsi di stipendi ridotti e di lavorare a singhiozzo. Un scontro duro che attende ora il risultato del referendum per conoscere il suo epilogo.

Fonte ReporterNuovo.it

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La Guerra Controrivoluzionaria della Dittatura Argentina

 Introduzione

“La sovversione è un problema che non richiede solo l’intervento delle forze armate. È un fenomeno globale, da affrontare attraverso una strategia plurisettoriale, capace di esplicarsi nel contesto politico, economico, culturale e militare”. In questa breve asserzione pronunciata, nel aprile del 1976, dal leader della giunta militare di Buenos Aires, Generale Jorge Rafael Videla, sembra condensarsi l’esperienza argentina del terrorismo di stato e del neoliberismo autoritario. Due strumenti contro-insurrezionali, in grado di realizzare quella palingenesi politica ed economica funzionale alla restaurazione dell’ “orden perdido”.

Le élite militari erano infatti convinte della necessità di inaridire il fertile terreno del populismo politico, dello statalismo economico e del protezionismo industriale, capace di nutrire i virgulti ideologici della rivoluzione e causare la “penetración subversiva”. Con ricette economiche antidirigiste e liberoscambiste e attingendo a piene mani alla tradizione valoriale conservatrice e alla dottrina della sicurezza nazionale era possibile stabilire una solida e rinnovata articolazione fra Stato e società, tale da rinsaldare le relazioni di autorità e promuovere la disciplina sociale in ogni ambito della vita collettiva. Annichilire i movimenti sovversivi era quindi preliminare ad una vasta opera di ingegneria sociale che, liquidando le prerogative alla vita e libertà degli individui attraverso la brutale repressione del regime, avrebbe ri-creato la vera identità della nazione, così come era percepita dalle forze armate.

Tuttavia, la minaccia comunista aveva attecchito profondamente in America centrale. L’approccio morbido e arrendevole della Presidenza Carter era inadeguato alla lotta contro le organizzazioni guerrigliere, interpretata, dalla reggenza militare argentina, attraverso il prisma della competizione bipolare. Di conseguenza, la campagna antisovversiva non poteva rimanere chiusa all’interno dei confini del paese ma, traboccando dagli argini nazionali, avrebbe dovuto travolgere, come un fiume in piena, le istanze rivoluzionarie nelle altre aree dell’emisfero occidentale. Così, le pratiche e il know how legati al terrorismo di stato divennero un prodotto che, al pari degli altri beni di consumo, poteva essere esportato, acquisito e utilizzato dai governi della regione per strozzare qualsiasi ambizione di cambiamento sociale e perpetuare le gerarchie consolidate.

Per tale motivo, nella prima parte dell’elaborato si esamineranno le politiche economiche e gli strumenti repressivi adottati dal governo del generale Videla all’indomani del golpe che esautorò la Presidenza di Isabel Martínez de Perón, il 24 marzo del 1976. In particolare, verrà analizzato il fenomeno del terrorismo di Stato, risultato di una complessa interazione fra fattori interni e influenze esterne. Componenti essenziale del “Proceso de Reorganización Nacional”[1], le pratiche del terrorismo statale furono poi esportare all’estero, nel tentativo di spegnere la fiamma comunista che divampava nel continente americano. Di conseguenza, nella seconda parte, se ne valuterà l’applicazione in America centrale, riservando maggiore attenzione all’analisi della controrivoluzione antisandinista in Nicaragua.

1.     Il fronte interno

 Verso il golpe

 Nel corso degli anni quaranta del novecento, la struttura economica e sociale  argentina aveva incoraggiato l’implementazione di un programma di sviluppo industriale basato sul mercato nazionale e favorito la costituzione di una vasta alleanza fra borghesia e classe operaia, sotto la tutela dell’apparato statale. Tuttavia, le continue politiche di intervento dei governi che si sono succeduti nei 30 anni successivi hanno di fatto alterato tale situazione, da un lato, provocando violenti scontri fra lavoro organizzato e capitale e, dall’altro, alimentando irrisolvibili rivalità fra imprenditoria industriale e agraria e interessi finanziari[2]. Una condizione di disagio e profonda instabilità che veniva esacerbata dalle inconciliabili forme di accumulazione e inserimento nel mercato mondiale che caratterizzavano i diversi compartimenti economici argentini.

Al contempo, all’inizio degli anni settanta, il movimento peronista, vasto ed eterogeneo, era dilaniato dalle sue diverse e antitetiche anime politiche. I cori e gli slogan del socialismo nazionalista: “Vamos a hacer la patria peronista, pero la haremos montonera y socialista”, furono soffocati nel sangue dai gruppi dell’estrema destra rappresentati nello stesso movimento[3]. Dopo essere tornato al potere nel 1973, Perón invano cercò di placare la tensione nel paese, che si esplicava in continui attentati terroristici di diversa matrice e colore, proponendo un patto sociale con sindacati e imprenditori e un accordo tra partiti. Gli scontri violenti fra il gruppo paramilitare neo-fascista AAA (Alleanza Anti-comunista Argentina)[4] e i Montoneros e l’Esercito Marxista Rivoluzionario del Popolo diradavano l’ardita visione peronista di costituire una “democrazia integrata”, basata su un largo consenso fra i maggiori partiti e i gruppi sociali.

Il colpo di grazia a qualsiasi tentativo di riconciliazione fu infine inferto dalle conseguenze della guerra Arabo-Israeliana. L’aumento del prezzo del petrolio, deciso dall’Opec, determinò una lievitazione dei prezzi delle esportazioni dei paesi industriali, deteriorando le ragioni di scambio dei paesi esportatori di beni primari. Gli industriali argentini si scagliarono immediatamente contro il congelamento dei prezzi mentre, in risposta, la CGT (Confederación General del Trabajo) e le unioni sindacali invocarono a gran voce un incremento dei salari.

In seguito alla morte di Juan Domingo Perón, nel luglio del 1974, Isabel Martínez de Perón assunse le redini del comando, adottando una politica economica sostanzialmente passiva e arrendevole. Difatti, subissato dalle richieste provenienti dal mondo del lavoro salariato e dell’imprenditoria industriale e agricola, il governo decise un aumento degli stipendi per i primi e una crescita dei prezzi per i secondi. Contemporaneamente, per finanziare la spesa in disavanzo, il regime continuò a stampare cartamoneta. L’inflazione galoppante, la crescita geometrica del deficit fiscale, l’aumento delle importazioni e la riduzione delle esportazioni caratterizzarono gli ultimi mesi del 1975. La crisi economica incalzava inarrestabile.

La rivoluzione capitalista di Martínez de Hoz

Alle prime luci dell’alba del 24 marzo 1976, gli edifici che ospitavano il governo e il Congresso Nazionale furono occupati dalle forze armate. Una giunta militare composta dal comandante dell’esercito, Jorge Rafael Videla, dal comandante dell’Aeronautica, Ramón Agosti e dal comandante della Marina, Emilio Eduardo Massera, si impadronì del comando. Per fronteggiare la difficile situazione economica, alimentata da anni di politiche populiste e stataliste, il Ministro dell’Economia del regime militare diretto da Videla, Martínez de Hoz, era convinto della necessità di imporre una liberalizzazione forzata, in grado di sbrigliare il mercato interno dai lacci oppressivi della regolazione statale. Il punto focale della “Nuova Politica Economica”, proposta dal suo entourage, consisteva in una radicale apertura e re-inserimento dell’economia domestica argentina nella struttura dell’economia mondiale, secondo rigidi criteri di efficienza e la legge dei vantaggi comparati.

Sette furono i capisaldi della nuova strategia adottata dalla reggenza economica di Martínez de Hoz[5]:

1. Riduzione dei salari reali per raggiungere una soglia di equilibrio più bassa della media degli anni precedenti del 40%. Questa misura avrebbe comportato considerevoli trasferimenti di reddito a favore dei produttori agricoli, riducendo invece la domanda nei settori di produzione di beni destinati al consumo di massa. Di conseguenza, avrebbe provocato instabilità sociale e profonda ostilità da parte dei lavoratori salariati, partiti politici e unioni sindacali.

2. Le tasse sulle esportazioni di prodotti agricoli sarebbero state abolite

3. Il mercato domestico sarebbe stato aperto alla competizione internazionale, attraverso una riduzione graduale e progressiva delle tariffe sulle importazioni. L’obiettivo era quello di abbandonare le vecchie politiche protezioniste finalizzate allo sviluppo dell’industria nazionale, aumentando la competitività e l’efficienza delle imprese e calmierando eventuali impennate di prezzi promosse da produttori locali.

4. Sarebbero stati bloccati tutti i sussidi che i precedenti governi, civili e militari, avevano erogato a favore delle imprese che producevano ed esportavano beni e manufatti non tradizionali, in accordo alla legge dei vantaggi comparati.

5. Il mercato dei cambi sarebbe stato liberalizzato e il settore finanziario riformato.

6. Sarebbero stati alzati i prezzi del settore pubblico

7. Sarebbe stata decurtata la spesa pubblica, aumentate le tasse per colmare il deficit e privatizzate alcune imprese pubbliche.

I responsabili economici del Proceso ponevano l’enfasi sul ruolo strategico rivestito dai produttori agricoli. L’Argentina conosceva pochi rivali nell’ambito del grano e della carne. Di conseguenza, in accordo alla legge dei vantaggi comparati, il paese doveva puntare sul potere del cibo. Tale convinzione non comportava però una sorta di “reagrarianization” o “pastoralization”. La riorganizzazione economica doveva promuovere la trasformazione dell’imprenditoria rurale in un complesso agro-industriale dinamico e basato sulle esportazioni. Allo stesso tempo, sul versante industriale, attraverso una politica di incentivi selezionati e concentrazione di investimenti, il governo favorì il settore petrolchimico, dell’acciaio, della cellulosa e della carta. Questo programma puntava a ridimensionare le imprese locali e sostituire, attraverso la produzione, le importazioni di quei prodotti e materie prime necessarie all’economia rurale e all’industria di base.

L’obiettivo ultimo era la modernizzazione dell’intero sistema produttivo, renderlo più competitivo e capace di adeguarsi alle esigenze del mercato mondiale.

Il programma neoliberista del regime minacciò ed erose il potere delle unioni sindacali, attraverso l’adozione di politiche che di fatto determinavano consistenti differenziali nei salari fra e all’interno dei diversi settori economici. L’esito fu una frattura del mercato del lavoro e un’intensificazione dell’eterogeneità della classe lavorativa. La stratificazione crescente del livello di vita e dei modelli di consumo resero impraticabile l’adozione di azioni collettive che travalicassero i confini di classe. Infine, a completamento del progetto di ristrutturazione dell’economia e depoliticizzazione della società, si limitò il ruolo del CGT nel coordinare l’universo argentino delle organizzazione lavorative, ridimensionando così l’unionismo politico, brodo di coltura della sovversione.

Il terrorismo di stato

 Nel corso del 1975, le due principali organizzazioni guerrigliere argentine, l’ Ejército Revolucionario del Pueblo (ERP) e i Montoneros, intensificarono le proprie azioni militari, con l’intento di attaccare simultaneamente le forze repressive del governo di Isabel Martínez de Perón e i “los enemigos políticos y de clase”[6]. Il governo rispose con un decreto presidenziale segreto, nel febbraio del 1975, accompagnato subito dopo da una legge del Congresso, che dava avvio all’ “Operativo Independecia”, una strategia finalizzata a prosciugare le fonti della sovversione. Il piano implicava la costituzione dei primi centri clandestini di detenzione e la creazione di gruppi operativi militari, paramilitari e di polizia che, attraverso torture, sequestri ed assassini ai danni di militanti politici, sindacalisti e studenti universitari legati, direttamente o indirettamente alla lotta armata, avrebbero dovuto sradicare la minaccia insurrezionale, prima nell’area di Tucumán e successivamente in tutto il paese. In quest’ambito, significativi furono gli interventi dell’ Alianza Anticomunista Argentina (AAA) e di altri gruppi di ispirazione fascista, come il Comando Libertadores de América, nel reprimere i sobillatori rivoluzionari. Tra la fine del 1973 e l’inizio del 1976, furono assassinate circa 900 persone, accusati di attività sovversive. Queste squadre paramilitari erano composte da ufficiali di polizia e membri delle forze armate, ritirati e in attività, unitamente ad esponenti dell’estrema destra peronista e nazionalista.

All’indomani del golpe del 1976, si delineò una continuità ideologica e strategica fra le forze della Tripla A e il piano della giunta militare. Essa consisteva nella formazione, accanto al sistema di difesa e sicurezza statale, di un esercito segreto, in grado di realizzare, in maniera sistematica e coordinata, le diverse operazioni che le organizzazioni paramilitari svolgevano singolarmente. La restaurazione dell’ordine sarebbe stata resa possibile dall’attuazione di una politica che fondeva la paura del conosciuto con la paura dello sconosciuto. “Fear of the know was instilled through actual physical repression, threats, control of society, propaganda and the omnipresent power of the state. Fear of the unknown was instilled primarily through omission: disinformation, the absence of the defined rules of the war and the absence of spaces where people could meet and acknowledge the presence of one another”.

In queste pratiche si sostanziò il terrorismo di stato argentino, prodotto di un’interazione dinamica fra fattori istituzionali, culturali e organizzativi, attori sociali domestici, influenze internazionali e costruzioni soggettive della realtà esterna.

Per spiegare questo modello di repressione, in primo luogo bisogna considerare l’organizzazione dell’apparato di sicurezza e le risorse che esso aveva a disposizione. Sarà quindi necessario da un lato valutare il grado di centralizzazione della struttura di sicurezza e dall’altro le capacità militari di mobilitazione del personale, le conoscenze tecnologiche e infine il know-how relativo alle azioni contro-insurrezionali.

In riferimento al primo punto, durante la “guerra sucia” degli anni settanta, la giunta militare aveva predisposto due strutture parallele per condurre le operazioni antisovversive: una ufficiale, l’altra segreta. L’apparato segreto era diretto dai servizi di intelligence associati alle diverse ramificazioni delle forze armate, sotto l’autorità dei comandanti in capo, dei comandanti di zona e dei capi delle differenti aree. Affrancandosi progressivamente dallo stato autoritario, questo apparato di repressione clandestina si trasformò in un centro di potere onnisciente e autonomo, in grado di soffocare efficacemente convulsioni rivoluzionarie grazie alle sue competenze e abilità nell’acquisizione di informazioni, nella guerra psicologica e negli interrogatori. Le organizzazioni di intelligence argentine condussero spesso azioni segrete che tendevano a bypassare le regolazioni istituzionali del regime. L’esito fu una graduale erosione delle strutture piramidali militari, che alimentò presto profonde rivalità e tensioni all’interno delle forze armate. Il graduale rafforzamento dell’autonomia dei servizi di intelligence e la professionalizzazione crescente dei suoi agenti resero queste agenzie un attore chiave nella lotta contro-insurrezionale non solo all’interno dei confini nazionali, ma anche all’estero. Esemplificativo a riguardo fu il ruolo che l’Army Intelligence Battalion 601 svolse nella crociata anticomunista in America centrale, che analizzeremo nel prossimo capitolo.

In riferimento al secondo punto, al termine del secondo conflitto mondiale, i diversi governi dei paesi Latinoamericani erano preoccupati di garantire l’ordine interno. Le ingerenze internazionali, prodotto del nuovo ordine mondiale bipolare, avrebbero potuto minacciare la stabilità domestica. A tal fine, le forze armate argentine si impegnarono nell’acquisire le risorse tecnologiche e le competenze necessarie per specializzarsi nei conflitti di tipo non convenzionale. Appresero così le diverse tecniche per interrogare eventuali sospettati, tra cui anche la tortura, considerata come una pratica legittima nella guerra contro-insurrezionale. Il suo continuo utilizzo la rese una procedura standard, di routine, giustificata come “una risposta moralmente preferibile alle minacce alla sicurezza statale”.

Un secondo importante elemento da considerare è la cultura istituzionale militare. Alla base del terrorismo di stato vi era la Dottrina della Sicurezza Nazionale, secondo cui la sicurezza del paese era preponderante rispetto a quella individuale, i diritti dei singoli erano sottomessi ai bisogni dello stato e le scelte politiche dei governanti prescindevano e si innalzavano al di sopra del rispetto della legge. Abbracciando una prospettiva multilivello, la dottrina della sicurezza nazionale analizzava i conflitti locali attraverso la lente d’ingrandimento dell’equilibrio bipolare: ogni successo conseguito dalle guerriglie rivoluzionarie marxiste a livello micro, si traduceva in una vittoria di Mosca a livello macro. Il nemico da combattere non era uno stato particolare, ma il Movimento Comunista Internazionale, che si esprimeva attraverso le sue appendici statali. Il concetto tradizionale di confine nazionale era così svuotato di significato e subordinato alla dimensione ideologica del conflitto, caratterizzata dalla logica a somma zero per la quale “one side’s gain is other side’s loss”.

Secondo le élite argentine, la strategia marxista era di incoraggiare una serie di movimenti insurrezionali all’interno dei paesi del Terzo Mondo, con l’intento di sensibilizzare la popolazione alla causa del socialismo internazionale. E poiché essi consideravano la sicurezza interna del paese intimamente legata allo sradicamento della minaccia comunista nell’emisfero occidentale, la soluzione da adottare era quella di promuovere un programma contro-rivoluzionario coordinato, basato sul modello di lotta non convenzionale delle operazioni clandestine.

Una terzo fattore da valutare nello studio del terrorismo di stato sono le influenze internazionali. Le pratiche antisovversive adottate dalla dittatura argentina furono inizialmente ispirate all’esperienza contro-rivoluzionaria francese in Indocina (1945-1954) e poi in Algeria (1954-1962), con l’enfasi posta sull’elemento anticomunista, l’arte della guerra psicologica e la legittimità dello strumento della tortura come forma di interrogatorio. In seguito, la dottrina argentina della guerra segreta fu rimodellata secondo il pensiero contro-insurrezionale statunitense, maturato durante il pantano vietnamita. Acquisì così l’ottica bipolare della guerra fredda, le tattiche di controguerriglia e le tecniche di guerra non convenzionale sviluppate dagli esperti di Washington.

Considerevole, inoltre, è stata l’influenza esercitata dalla nozione del bene comune e della teoria organica dello stato, partorita dal pensiero Iberico-Cattolico del 19° e  20° secolo e dalla filosofia tedesca del 18° e !9° secolo. L’obiettivo ultimo dello stato è il conseguimento del bene comune, che moralmente legittima l’operato del potere politico. Lo stato è concepito come un corpo organico autonomo, con un suo ciclo naturale di vita teso al perseguimento del benessere della collettività. Questa concezione biologica dello stato, punto focale della dottrina geopolitica tedesca (Geopolitik), ha plasmato il pensiero militare sudamericano.

Allo stesso tempo, anche il contesto internazionale esercitava le sue pressioni sulle decisioni ed operazioni militari e clandestine. Se da un lato, organizzazioni non governative, come Amnesty International, e governi, come la presidenza del democratico Carter, denunciavano le violazioni ai diritti umani perpetrate dalla giunta militare, dall’altro, reti transnazionali, come la World Anti-Communist League, e organizzazioni religiose di destra, come la Unification Church, non facevano mancare il loro appoggio allo sforzo antirivoluzionario argentino.

A livello domestico, a giustificare l’adozione delle pratiche del terrorismo di stato era la robustezza e la profonda radicazione dei movimenti insurrezionali. Due erano i gruppi principali. I Montoneros, insorti della destra cattolica, propugnatori del socialismo nazionale. L’ERP (Partido Revolucionario de los Trabajadores), di iniziale matrice trotzkista, ma poi attratto dal modello rivoluzionario cubano e della guerriglia guevarista.

Infine, la percezione soggettiva della minaccia sovversiva da parte delle élite militari ha influenzato le sue modalità d’azione contrastive. Si riteneva infatti che l’obiettivo ultimo della guerriglia era smantellare l’apparato repressivo della giunta e conquistare, dal punto di vista ideologico, i cuori e le menti della popolazione. In particolare, i servizi d’intelligence provvidero a “costruire” la realtà da combattere, delineando una sorta di schema della guerra marxista. Secondo questa mappa, lo sviluppo di fuochi sovversivi nel nord dell’Argentina sarebbe stato seguito dalla costituzione di un apparato politico, in cui si concentravano le funzioni di comando, propaganda e indottrinamento e di uno militare, incaricato di progettare ed effettuare le azioni terroristiche. Attraverso legami transnazionali, queste strutture si sarebbero poi rapportate e coordinate alle organizzazioni insurrezionali presenti negli altri paesi del continente sudamericano, dell’emisfero occidentale e, in ultima analisi, del mondo intero.

La minaccia sovversiva così costruita richiedeva l’intervento dello stato al fine di sbaragliare le forze guerrigliere, smantellare la loro rete di supporto all’interno della società e disciplinare la collettività. Il terrore instillato nella popolazione avrebbe inoltre inibito ogni capacità di reazione, stroncando sul nascere una sua eventuale mobilitazione.

2.     Il fronte esterno

 La crociata anticomunista

 Nel novembre del 1975, durante la prima riunione interamericana di intelligence, a Santiago, la Dirección de Inteligencia Nacional cilena istituì, congiuntamente con i servizi di intelligence argentini, uruguaiani, boliviani, paraguaiani e brasiliani, l’Operazione Condor. Si trattava di una rete militare clandestina che, attraverso operazioni segrete, avrebbe dovuto contrastare la proliferazione dei movimenti di dissidenza nell’emisfero occidentale. Attraverso le pratiche della tortura, del sequestro, della sparizione, di esecuzioni sommarie ed extragiudiziali, questa struttura di intelligence latinoamericana puntava ad eliminare la minaccia sovversiva presente nella società domestica e al di fuori dei confini nazionali. Gli obiettivi principali erano rifugiati, esuli e dissidenti politici, nemici dell’ordine autoritario e promotori idealisti del cambiamento sociale.

La struttura Condor si articolava in tre livelli. Il primo si basava su una reciproca collaborazione fra i diversi servizi d’intelligence, per le operazioni di sorveglianza dell’eventuale sovversivo e di scambio di informazioni. Il secondo riguardava le azioni segrete: squadroni multinazionali, agendo attraverso i confini statali, rapivano, interrogavano e “facevano scomparire” i sospettati. L’ultimo era denominato: la fase tre. Essa consisteva nella costituzione di formazioni di assassini che, viaggiando e spostandosi di località in località, avrebbero dovuto eliminare i ribelli.

Militari e servizi d’intelligence statunitensi lavorarono a fianco di questo sistema, nonostante la comprensibile preoccupazione e opposizione di alcuni funzionari e membri del Congresso. Un sistema del terrore altamente professionalizzato e razionale, moderno e letale, capace di dispiegare il suo potenziale sul continente attraverso capillari infrastrutture di trasporto e comunicazione tecnologicamente avanzate.

Come scrive J. Patrice McSherry, l’operazione Condor rappresentò “the internationalization of state terror”.

In America centrale

 Le influenze francesi e statunitensi sulla Dottrina della Sicurezza Nazionale argentina, la concezione ideologica delle frontiere[7] e la convinzione dell’interdipendenza fra la stabilità dell’ordine autoritario domestico e la sconfitta della rivoluzione all’estero, fornirono alla giunta una valida giustificazione per intervenire in teatri di lotta esterni ai confini nazionali. Lo svigorimento fisico della guerriglia interna, infatti, permetteva ora di concentrare l’attenzione sul confronto con la “cospirazione” marxista radicata soprattutto nei paesi dell’America centrale. Nel collaborare con servizi di intelligence degli stati centro-americani, gli agenti argentini hanno condiviso le loro esperienze e conoscenze in materia di conduzione degli interrogatori e tecniche di tortura. In particolare, hanno cercato di esportare il metodo contro-insurrezionale adottato all’interno del proprio paese, addestrando le squadre della morte in El Salvador, Guatemala e Honduras.

Nell’estate del 1979, su richiesta del governo del Generale Carlos Humberto Romero, furono inviati in El Salvador esperti argentini nelle pratiche psicologiche di interrogatorio e nell’analisi di informazioni. Gli squadroni della morte salvadoregni, come Unión Guerrera Blanca e Fuerzas Armada de Liberación Anticomunista – Guerra de Eliminación , furono istruiti nelle più innovative tecniche antisovversive ed equipaggiati militarmente da Buenos Aires. La collaborazione con l’ Agencia Nacional de Servicios Especiales de El Salvador (ANSESAL) si intensificò durante gli anni della giunta civile-militare che, nell’ottobre del 1979, sostituì, in seguito ad un colpo di stato, la reggenza del generale Romero. Le forze armate argentine fornirono supporto logistico, addestramento di nuove unità di combattenti e know-how sulle pratiche contro-insurrezionali di tipo urbano e rurale. Erano considerate delle autorità in questo campo, come traspare dal commento di un paramilitare salvadoregno: “the Argentines are the only ones in the world who fought an urban guerrilla war and won it. So, they’re just naturally recognized as the best”.

Anche in Guatemala il coinvolgimento argentino non si limitò alla vendita di arsenale bellico e supporto logistico contro-rivoluzionario. Difatti, nell’ambito di un accordo segreto, stipulato nell’ottobre del 1981 con il regime del Generale Romeo Lucas García, circa duecento ufficiali di polizia e dell’esercito guatemalteco partirono alla volta di Buenos Aires, dove furono addestrati nelle più avanzate e brutali tecniche del lavoro di intelligence. Non solo argentini, ma anche agenti israeliani e cileni furono inviati, all’inizio del 1980, in Guatemala, con il compito di preparare le formazioni della morte, come l’Ejército Secreto Anticomunista, alle migliori strategie di lotta alla guerriglia urbana.

In Honduras, in seguito alla nomina di Alvarez Martínez, addestrato nell’accademia militare argentina del Colegio Militar, come comandante delle Forze di Sicurezza Pubblica, il modello argentino dei centri di detenzione clandestina, dei sequestri e delle esecuzioni sommarie fu implementato sistematicamente. Su idea di Martínez fu istituito il Battalion 3-16, organizzazione paramilitare segreta, addestrata, assistita ed equipaggiata dal FBI e dalla CIA, in collaborazione con le forze armate argentine e cilene. Gran parte dei suoi membri furono istruiti sulle manovre di combattimento, sulla fabbricazione di esplosivi e sulle tecniche di interrogatorio nella base di Lepaterique. Spesso, militari argentini prendevano parte alle operazioni clandestine contro-insurrezionali a fianco delle squadre della morte honduregne.

Il caso del Nicaragua

In seguito all’esautorazione del governo Perón e all’instaurazione della dittatura militare, le forze armate argentine stabilirono una robusta relazione di collaborazione, nell’ambito della sicurezza, con il regime nicaraguense di Anastasio Somoza Debayle, salito al potere nel 1967. Fino agli inizi degli anni settanta, le unità della guardia nazionale erano state addestrate dagli esperti statunitensi. Tuttavia, l’escalation degli attacchi insurrezionali del Frente Sandinista de Liberación Nacional (FSLN) e la politica estera della presidenza democratica carteriana, incentrata sulla promozione e il rispetto dei diritti umani nel mondo, convinsero presto Somoza della necessità di individuare canali alternativi di approvvigionamento di attrezzature e know-how militare.

Buenos Aires, data la sua esperienza nel fronteggiare la guerriglia nella regione del Tucumán, sembrava il candidato ottimale. Il programma didattico offerto dagli esperti argentini spaziava dall’istruzione politica e ideologica, focalizzata sull’origine delle ideologie, la nascita dei partiti politici, la struttura e l’organizzazione dei movimenti rivoluzionari latinoamericani, fino ad includere l’apprendimento delle più sofisticate e moderne pratiche di intelligence e strategie antisovversive. Allo stesso tempo, il regime argentino, insieme con Israele, Brasile, Sud Africa, El Salvador e Guatemala, intensificò l’esportazione di materiale bellico a favore del Nicaragua, rinvigorendo fisicamente e moralmente le truppe della guardia nazionale.

D’altro canto, gli insorti sandinisti poterono contare  sull’appoggio di alcuni gruppi di dissidenti argentini, provenienti dalle file dei Montoneros e del Ejército Revolucionario del Pueblo. Quest’ultimi erano infatti convinti che la lotta armata rappresentasse lo strumento migliore per promuovere la rivoluzione. E se in Argentina non vi erano le condizioni per raggiungere tale obiettivo, era necessario impegnarsi altrove per conseguirlo.

Con la caduta di Somoza e l’ascesa al potere dei sandinisti nel 1979, la giunta di Videla offrì maggiore assistenza contro-insurrezionale ai governi centro-americani. Riuscì così a penetrare più profondamente nella regione e, in seguito, ad organizzare più efficacemente la guerriglia dei Contras in Nicaragua.

Il regime di Buenos Aires poté contare sull’ostilità di parte della popolazione nicaraguense alla svolta rivoluzionaria del sandinsita Daniel Ortega, che finiva di fatto per erodere le basi della sua legittimità. Le masse rurali si mostrarono difatti subito contrarie alle politiche adottate dal nuovo governo. Dal punto di vista economico, esse prevedevano la collettivizzazione della terra (considerata vitale per la ripresa economica) e la centralizzazione, nelle aree urbane, della distribuzione del credito e dei beni di consumo. Queste misure determinarono un’ineguale redistribuzione del reddito a sfavore delle aree contadine e inevitabilmente cozzarono con il modello tradizionale di produzione autonoma e individuale adottato dagli agricoltori nicaraguensi.

Anche le gerarchie ecclesiastiche[8] svolsero un importante ruolo di critica, nella misura in cui presentarono l’ideologia marxista e il Sandinismo come diametralmente opposta alla morale cristiana.

Nutrendosi dello scontento del ceto contadino e dei vertici clericali conservatori, la CIA e il Battalion 601 arruolarono e addestrarono le formazioni dei Contras, pianificarono le loro strategie d’attacco, coordinarono e diressero le loro azioni e infine li rifornirono delle risorse necessarie per sbaragliare il governo del FSLN.

Inizialmente gli insorti antisandinisti emersero come bande separate, autonome e mal equipaggiate, operanti soprattutto nelle zone montagnose e nelle aree di confine con l’Honduras. Successivamente, questi gruppi si coagularono, formando l’embrione della Fuerza Democràtica Nicaragüense (FDN). Era la fine del 1981 e, il 23 novembre dello stesso anno, l’amministrazione repubblicana di Reagan aveva approvato la National Security Decision Directive (NSDD) 17, autorizzando così la CIA ad istituire delle forze paramilitari di interdizione in grado di bloccare il flusso di armi che, partendo da Managua, riforniva i movimenti guerriglieri salvadoregni.

In realtà, l’obiettivo ultimo perseguito era l’abbattimento del regime sandinista. Per gran parte dei collaboratori di Reagan, la cui condotta era fortemente disciplinata dagli imperativi dell’equilibrio bipolare e della teoria del Domino, una nuova Cuba nel cortile di casa era inaccettabile. Nell’applicazione della strategia della “Low-Intensity-Warfare”, che proponeva una guerra dal basso, basata su azioni segrete e paramilitari, i servizi di intelligence statunitensi poterono usufruire di gruppi di insorti addestrati precedentemente dagli esperti delle Forze Armate Speciali argentine nelle accademie disseminate a Buenos Aires, Guatemala, El Salvador e Honduras. In questi centri, i Contras venivano preparati in materia di operazioni clandestine, guerra psicologica, camuffamento, spionaggio, fabbricazione di esplosivi, sabotaggio, rapimenti e tecniche di interrogatorio.

In seguito, l’impegno controrivoluzionario di Buenos Aires si ridusse quando, nel dicembre del 1983, dopo le brevi dittature di Roberto Eduardo Viola e Leopoldo Galtieri, fu eletto come presidente del nuovo governo democratico argentino Raúl Ricardo Alfonsín.

Diversamente, l’amministrazione Reagan, eludendo gli emendamenti Boland[9], proseguì la crociata anticomunista in Nicaragua, attraverso operazioni clandestine sempre più spregiudicate e individuando canali di approvvigionamento finanziario illegali[10]. Nonostante gli sforzi e le continue violazioni alla legislazione interna ed internazionale, gli Stati Uniti non riuscirono a rovesciare il regime di Ortega. Le ostilità si concluderanno con il piano di pacificazione (Contadora Plan) proposto, nel 1987, dal presidente del Costarica Oscar Aries Sanchez, implementato poi l’anno successivo.

Conclusioni

I vertici militari argentini concepivano il confronto con le forze insurrezionali come una guerra senza confini. La migliore risposta alla sovversione interna risiedeva in una strategia poliedrica, che riguardasse non solo la sfera militare, ma anche quella economica e psicologica.

Sul versante economico, le proposte neoliberiste dei tecnocrati dell’Università di Chicago alimentarono profondi dissidi all’interno dei vertici di comando. Alcuni generali, legati ad industrie pubbliche, non volevano perdere i benefici che ne ricavavano attraverso l’implementazione del piano di radicale privatizzazione suggerito da Martínez de Hoz. Allo stesso tempo, molti militari osteggiavano l’ipotesi di una completa liberalizzazione del mercato del lavoro e del totale smantellamento delle organizzazioni sindacali. Le imprese in crisi sarebbero state libere di licenziare i propri dipendenti, comportando un aumento del tasso di disoccupazione che avrebbe inevitabilmente nutrito la protesta sociale e, in ultima analisi, la sovversione.

Queste lacerazioni interne alle alte gerarchie non si presentarono però sul versante della sicurezza domestica. La pressoché unanime condivisione delle pratiche dei sequestri, detenzioni clandestine e sparizioni, in cui si sostanziò il terrorismo di stato, ne permise un’applicazione rigorosa e sistematica.

In primo luogo, questo metodo consentiva di estendere un alone di sospetto su un’ampia parte della società, costringendola alla passività e inazione, a causa del timore delle pratiche repressive e dell’isolamento dal resto del corpo sociale. Così generava insicurezza ed incertezza all’interno dei gruppi guerriglieri, impedendo una pronta ed efficace risposta difensiva contro le delazioni e accuse estorte attraverso tortura.

Secondariamente, scoraggiava la protesta da parte dei familiari della vittima, occultava i responsabili, ostacolava qualsiasi comunicazione con il prigioniero, generando la paura di possibili rappresaglie contro la sua cerchia ristretta di parenti e amici.

L’afrore di tensione che impregnava l’ordine internazionale bipolare convinse presto la giunta, consapevole del successo che le pratiche del terrorismo di stato avevano riscosso in patria, della necessità di condividerle con le altre realtà dittatoriali del continente. La politica estera carteriana, votata alla salvaguardia dei diritti umani e destinata a sacrificare a tale agenda internazionale le esigenze di Realpolitik, era incapace di affrontare con spregiudicatezza le minacce rivoluzionarie all’ordine costituito. L’Argentina di Videla si mostrò pronta a riempiere il vuoto, lasciato da Washington, come garante della sicurezza emisferica. Un ruolo che riuscì a svolgere con costanza e metodicità, attraverso la riproduzione, in altri contesti nazionali, di sé stessa, del proprio sistema politico e militare repressivo.

Gli strali e le critiche dell’Amministrazione Carter nei confronti del Proceso cessarono quando, nel 1980, con l’elezione alla Presidenza del repubblicano Ronald Reagan, si manifestò una convergenza programmatica e d’interessi fra Buenos Aires e Washington. Un’uniforme visione del Terzo Mondo, come campo di battaglia fra Est ed Ovest, pose le basi per una feconda collaborazione fra i due governi, decisi a contenere e respingere l’espansionismo sovietico in America Centrale. Un’intesa che si mostrò però limitata, dopo la tentata occupazione delle Falkland/Malvinas, la cui sovranità era disputata con la Gran Bretagna, da parte del Generale Leopoldo Galtieri nel 1982. In quell’occasione infatti, Washington sostenne le rivendicazioni dell’alleato europeo, schierandosi a fianco della lady di ferro, il primo ministro inglese Margaret Thatcher.

Inoltre, se da un lato, la crisi economica, dovuta al debito estero e all’inflazione, mostrò il fallimento delle ricette economiche neoliberiste, dall’altro, le inconciliabili divisioni interne all’apparato istituzionale, sempre latenti e mai sopite nel corso del lungo periodo dittatoriale, le violazioni dei diritti umani e l’impopolarità della disfatta delle Falkland/Malvinas rivelarono la debolezza e l’ormai limitata capacità del regime di perpetuare il proprio modello repressivo anche solo all’interno degli stessi confini nazionali.

Così, mentre Buenos Aires perdeva il ruolo di baluardo dell’anticomunismo nell’Emisfero occidentale, un ruolo che aveva egemonizzato nel corso dell’America carteriana e poi condiviso con gli Stati Uniti durante la presidenza reaganiana, si ponevano le premesse per il suo cambiamento interno. L’Argentina si apprestava ad intraprendere il difficile e precario cammino della transizione democratica.

Marco Luigi Cimminella


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1-  Gli obiettivi del Processo di riorganizzazione nazionale comprendevano la restaurazione dell’ordine e la ristrutturazione e riorganizzazione delle istituzioni, al fine di porre le basi per la costituzione di un “auténtica democrazia”, permeata dai valori della morale cristiana e occidentale, della tradizione e della sicurezza nazionale e della dignità dell’essere argentino. (La Nación, 25 de marzo de 1976).

2- In particolare, il Ministro dell’Economia della giunta Videla, José Martínez de Hoz, fu molto critico nei confronti della politiche economiche adottate dal regime di Onganía e dal suo Ministro dell’economia Krieger Vasena, bollandole come insufficientemente ortodosse.  Secondo la critica neo-liberista di Martínez de Hoz, il piano di Krieger Vasena implicava un eccessivo intervento dello stato nell’economia, dagli effetti pericolosamente deleteri. Difatti, si riteneva che l’industrializzazione argentina fosse stata alimentata da salari artificialmente alti e prezzi del settore pubblico bassi, una spesa pubblica insostenibile e una sistematica discriminazione ai danni del settore agricolo attraverso una serie di sussidi che favoriva le industrie urbane in grado di soddisfare i consumi di massa. Il prodotto di questa politica era stato quindi disastroso: industrie domestiche costose e scarsamente competitive e un settore pubblico congestionato e inefficiente. In definitiva, le politiche economiche di Krieger Vasena furono considerate come una versione più coerente e statista della strategia, di ispirazione Keynesiana, della sostituzione delle importazioni attraverso l’industrializzazione, strategia peraltro sostenuta e difesa da Peronisti, Radicali, Desarollistas e nazionalisti militari a partire dagli anni 40 e 50 del XX secolo.

3- Massacro di Ezeiza, 21 giugno del 1973. In quell’occasione, le forze peroniste socialiste aveva realizzato una grande manifestazione per accogliere in festa Juan Domingo Perón, all’aeroporto internazionale di Ezeiza. Le frange dell’estrema destra peronista attaccarono i gruppi socialisti, sparando sui montoneros e impiccandoli agli alberi del parco circostante Ezeiza.

4- Le forze paramilitari della tripla A furono costituite da José López Rega, segretario privato di Perón e Ministro agli affari sociali nel 1973. L’Alianza  Anticomunista Argentina dichiarò guerra aperta ai gruppi combattenti marxisti, agli esponenti politici, sindacali ed intellettuali della sinistra radicale (zurdos). L’obiettivo ultimo era una “depuración ideológica” , al fine di decontaminare il movimento peronista dall’infiltrazione comunista.

5- Dall’aprile del 1976 al marzo del 1981

6- Già a partire dal 1974, il ERP stava conducendo una guerriglia rurale nella zona montagnosa di Tucumán.

7- I confini statali sono irrilevanti nella lotta al comunismo internazionale. La strategia globale adottata dal Movimento marxista prescindeva dalla nozione convenzionale di confine nazionale. Di conseguenza, la risposta occidentale non poteva essere segmentata da partizioni geografiche che di fatto avrebbero parcellizzato e indebolito il suo potenziale militare.

8- Già nel marzo del 1979,Monseñor Obando y Bravo, Arcivescovo di Managua e Monseñor Pablo A. Vega, vescovo di Juigalpa sostennero la creazione di un organizzazione civile, il Comité de Reflexión Patriótica, per contrastare le forze sandiniste.

9- Il primo emendamento Boland, del 1982, proibiva l’utilizzo di fondi federali per sostenere militarmente la guerriglia dei Contras in Nicaragua. Il secondo emendamento Boland, del 1984, rimarcava il primo e vietava qualsiasi operazione militare e paramilitare al fine di rovesciare il regime di Managua.

10- Emblematico, in questo senso, è stato l’ Iran-Contras Affair. In base ad un piano elaborato dal National Security Council, si decise di utilizzare i proventi derivanti dalla vendita di armi all’Iran, realizzata attraverso il tramite d’Israele, per foraggiare la lotta antisandinista in Nicaragua. Allo stesso tempo, Teheran si impegnava a convincere Hezbollah a rilasciare gli ostaggi statunitensi sequestrati in Libano.